I meriti di FIRE sono cosi evidenti da renderne ovvio l'elenco: la denuncia (certamente accalorata e sincera) dell'immobilismo della società indiana, della sterilità del nucleo famigliare, del rifiuto all'apertura nei confronti delle conquiste moderne più evidenti, dell'immiserimento dei valori filosofici e religiosi tradizionali, dell'affermazione del machismo più stolido. Il film si costruisce allora sulle due figure femminili, giustamente contrapposte psicologicamente: la giovane Sita, insofferente alla volgarità di una costrizione che la società moderna rifiuta sempre di più, e Rhada, apparentemente rassegnata ad una condizione immutabile. Sulla loro femminilità, espressa assai bene dalle due attrici, che il film ha il coraggio di esplicitare sul piano fisico, senza rifugiarsi in allusioni ipocrite.

Ma è nel linguaggio che FIRE tradisce le sue belle intenzioni. Condotto sul filo di un estetismo assolutamente inutile, tutto fatto di flou decorativi e controluce gelatinosi il film scivola inesorabilmente verso quell'approssimazione che è propria dei film stilisticamente incerti. La sensualità di un intimismo evidente si traduce in un erotismo un po' vano, i personaggi maschili sono ai limiti del caricaturale, lo sguardo sull'ambiente si ferma alla superficie delle cose. E l'evasione nella metafora, nel soprannaturale, nella poesia avvengono con una fatica sorprendente, in una cultura che ha sempre fatto della trascendenza una delle sue ragioni.